CI SALVAMMO IN TANTI CON QUELLA MONTAGNA

Pellegrinaggio, trent’anni dopo, a San Marino, che costituì, durante la guerra, il più sicuro rifugio per i riminesi. Bombe sulla Repubblica del Titano.

02/05/2023

Ho reso omaggio anch’io all’ineludibile feticcio della vacanza romagnola: la visita a San Marino. Per chi, come me, ha avuto negli occhi fin dall’infanzia «l’azzurra visione» delle tre Rocche presume di sapere quasi tutto (non fosse altro perché all’ombra loro salvò la pelle, durante la guerra, in compagnia di centomila riminesi), risalire il monte è stato come andare a rivedere qualcosa o qualcuno che un giorno si mise provvidenzialmente sulla tua strada; e adesso vuoi sapere se c’è ancora. E magari ringraziarlo.

La favola aerea

Salivo dunque con la mia piccola intenzione votiva nascosta in un fiume di automobili, tra gente che indicava ai bambini, da sotto, il profilo sempre più netto di quella favola appesa lassù per aria: le torri e i camminamenti, anch’essi merlati che le uniscono; gli allegri stendardi, le balestre di ferro, le buie feritoie; e poi lo strapiombo col primo rimbalzo sui tetti di Borgo Maggiore, a 500 metri.

Lì c’è ancora la mia scuola. Vi feci, per combinazione, la prima elementare. La maestra Belluzzi mi rivide da grande, da sfollato e volle subito sapere come andò dopo, a Rimini, in seconda, in terza, fino alla quinta. Il resto della mia vita non le interessava.

Proprio accanto alla scuola, il 26 giugno del ’44, le uniche bombe lasciate cadere sul Titano fecero un primo mucchietto di morti. Poi arrivò la notizia che in Città erano state falciate oltre 50 persone, perché le bombe, slittando, rimbalzando, infine scoppiando contro l’osso duro del monte, avevano creato micidiali ventagli di schegge.

Amarcord, vidi per primo il professor Anfelini, il nostro insegnante di latino e di greco, morto sul curvone del Borgo con gli occhiali d’oro a pince-nez ancora a posto, i capelli grigi a raggiera.

Vassoio luccicante

Intanto la folla dei turisti, raggiunto il centro della favola, se la gode tutta. Il momento sembra lì per reggere un interminabile e colmo vassoio di minutissime cose luccicanti, quasi tutte da appendere o da posare, fatte cioè per essere ricordate a lungo.

Questa gente ricorderà per un sorso di liquorino verde rinchiuso in una botticella di ceramica, per un mazzo di carte romagnole, per i francobolli e le monete, per una bandierina, o per un paio di corna di cervo, per la cartolina biancazzurra con l’insediamento dei Reggenti, per un portacenere.

Noi, noi riminesi, abbiamo altre ragioni: chi ha dimenticato le gallerie del trenino elettrico trasformate in due ininterrotte distese di materassi, col vicoletto al centro, i santi alle pareti e le tende per dividere quel condominio e salvarvi un briciolo di pudore, di decoro, per difendere insomma quel dormitorio dalla sua mortificazione?

Qualcuno soffiò agli Alleati che le gallerie erano diventate arsenali d’armi tedesche: in quattro ondate, di tre bimotori per volta, violarono non soltanto uno Stato sovrano tenutosi fuori dalla guerra, ma un luogo di carità. Per 65 morti e 98 feriti San Marino ricevette dagli inglesi 80.000 £, ma vent’anni dopo, perché si era cominciato col chiedere i danni agli americani che non c’entravano e che, comunque, si accorsero del dettaglio strategico dopo una decina d’anni.

Tragedia lontana

Ne sono trascorsi trenta da quando, passato il fronte, tornammo a riprenderci le nostre case mozze di Rimini. E da allora siamo stati poco meglio di tutti gli Alleati messi insieme, anche noi come quel dettaglio nella nostra storia, anche noi con una riparazione che non ci è parsa urgente e, forse, neppure necessaria. E da allora non ci siamo più fatti vivi, se non come oggi, con una figlioletta per mano, confusi dentro la favola. La tragedia è lontana e centomila persone, io per primo, non abbiamo fatto un gesto per dire pubblicamente grazie a questo monte che pure i riminesi continuano a vedere solo girando un po’ la testa. Un gesto, che prima o poi, andrebbe fatto perché la storia, che non ha estri né amori, non riuscirà da sola a far durare la gratitudine. Certo, e chissà che non sia meglio aver ritrovato così questo luogo del nostro rimorso; abbandonarsi a un fiume di gente e di cose nuove, piuttosto che cercarci, in piedi, nelle secche dei ricordi.

Sergio Zavoli

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